Convincere i lavoratori a rinviare la pensione almeno fino all’età di vecchiaia e in alcuni casi anche dopo: la manovra di bilancio presentata approdata in Parlamento non ha introdotto nuove strette sull’accesso alla pensione anticipata come accaduto l’anno scorso ma ha puntato sulla convenienza per le persone a restare al lavoro il più a lungo possibile.
E sulle pensioni minime, a fronte di un incremento che sarebbe scaduto a fine 2024 e che avrebbe rischiato di far tornare indietro gli assegni, è stato deciso un aumento inferiore rispetto a quello per il 2024. Se si guarda all’importo la pensione minima passa dai 614,77 euro attuali a 617,9 nel 2025 con un aumento di appena tre euro. Ma, spiegano al ministero, il trattamento minimo è a 598,61 euro ed è stato possibile arrivare a 614,77 grazie a un aumento transitorio del 2,7% che scadeva a fine 2024.
Per evitare una riduzione della pensione nel 2025 è stato deciso un incremento del 2,2%. In pratica quindi la pensione minima avrà l’aumento legato all’inflazione (l’1%) per arrivare a 604,6 euro e poi un ulteriore aumento del 2,2% per arrivare a 617,9. Si tratta di un importo mini che subito scatena la polemica. Non convince i sindacati, che con la Uil parlano di una misura che “vale 10 centesimi al giorno”, e i consumatori dell’ Unc che ritengono le minime “pensioni da fame”. Si scalda anche la politica: il presidente M5s, Giuseppe Conte e il leader dei Verdi definiscono l’aumento ‘un’elemosina’. La manovra contiene anche altro. E’ stato rafforzato il cosiddetto bonus Maroni, ovvero la possibilità per chi ha raggiunto i requisiti per andare in pensione con Quota 103 (62 anni di età e 41 di contributi oltre alle finestre mobili) di avere in busta paga i contributi a carico del lavoratore, ovvero il 9,19% della retribuzione. La scelta era stata fatta finora da un numero esiguo di lavoratori perché poco conveniente fiscalmente ma la manovra ha stabilito che questi importi per il 2025 non concorrano alla formazione del reddito. La scelta comunque va ponderata perché la quota di contributi che il datore di lavoro mette in busta paga non viene versata all’Inps e quindi non concorre a formare la pensione futura.
Si lavora inoltre al trattenimento in servizio dove possibile degli impiegati pubblici anche a fronte di una stretta sul turnover. Viene eliminata la facoltà per la pubblica amministrazione di mandare in pensione il dipendente che avesse 42 anni e 10 mesi di contributi una volta raggiunti i 65 anni di età ed equiparato il sistema con quello privato con la messa a riposo una volta raggiunta l’età di vecchiaia, ora a 67 anni. Ma soprattutto si prevede la possibilità per l’amministrazione, ove necessario “anche per lo svolgimento di attività di tutoraggio e di affiancamento ai neoassunti e per esigenze funzionali non diversamente assolvibili” di trattenere il lavoratore fino a 70 anni, con il consenso del lavoratore stesso. La manovra conferma tra le misure di flessibilità in uscita l’Ape sociale,
Opzione donna e Quota 103 con le regole previste per il 2024 e introduce la possibilità per chi è interamente nel sistema contributivo di usare la rendita dei fondi pensione integrativi per raggiungere l’importo dell’assegno sociale, necessario per andare in pensione a 67 anni a fronte di 20 anni di contributi. In assenza di questo importo di pensione si rischia di andare più tardi, fino a 71 anni.
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