Ascolta la versione audio dell’articolo6′ di letturaPer anni sono andato in giro portando, ben chiuso in un angolino del portafogli, un piccolo foglio a quadretti con una poesia da me trascritta. Sapere che quella poesia era con me mi dava una certa sicurezza, o forse no, era solo un gesto scaramantico; comunque aveva acquisito, nel tempo, sempre più senso. Nel fiele delle crete, / nel sibilo dei rettili, / il forte buio che sale dalla terra / abitava il tuo cuore. // Tu già dolente al cielo delle rive / ti crescevi crudele il sangue / d’una razza senza legge. / Qui dove dorme verde l’aria / di questi mari in cancrena, / affiora bianco scheletro marino. / / E tu senti una povera vertebra umana / consorte a quella che il flutto / logora e il sale. // Fino a che memoria ti sollevi / a sospirati echi, / dimenticata è morte: / e la candida immagine sull’alghe / segno è dei celesti.Non è un capolavoro, lo so, ma discreta, sì. Suona bene. È proprio una “poesia-poesia”, di quelle che si scrivevano nel Novecento in Italia. C’è l’ermetismo, quello che i critici chiamano il correlativo oggettivo, il sentimento, l’alliterazione, le figure retoriche, il rispetto del metro. Ma poi c’è anche tutta una sua maniera, un gusto letterario, uno stile, un alludere a poesie d’altri autori. C’è tutto, insomma. Più di tutto, però, per me, ci sono due cose. L’autore: Salvatore Quasimodo, uno che le poesie le sapeva scrivere, visto che gli hanno dato pure il Nobel. Poi, c’è il titolo: Spiaggia a Sant’Antioco.Loading…Ecco. Se permettete, vi porto da me, in viaggio: a casa, dove questa estate non sono stato. Sono nato e vissuto, per i primi trenta anni, qui a Sant’Antioco, isola nel sud ovest della Sardegna. E ho sempre abitato – e tuttora quando torno – in via Quasimodo, appunto, case popolari. Era chiaro – destino? –, era persino scontato che non potevo che rimanere affascinato, dunque, da questa poesia. Così l’ho imparata a memoria, l’ho trascritta, la custodivo e, ogni tanto, me la ripetevo. Sì, ma, alla fine: cosa diavolo vuol dire, davvero, questa poesia? Che cosa dice a me? E ad altri come me? E poi: mi dovrebbe dire qualcosa?Ho sempre associato l’idea di spiaggia a una spiaggia dove si andava da ragazzi con gli amici, si chiama Coa Quaddus, la coda di cavallo. Mare cristallino, sabbia bianca e fina, macchia mediterranea, profumo di lentischio, fiori di asfodelo, sole a picco, albe meravigliose, frinire di cicale, persino gli ameni pascoli di pecore visibili a pochi passi dagli ombrelloni. Non sto scherzando: è tutto vero. Coa Quaddus è il concentrato di tutti gli stereotipi della spiaggia sarda da cartolina. Bene. Non è quella la spiaggia di cui parla la poesia, con tutta evidenza. E, infatti, non è la spiaggia del mio cuore: peggio per voi, vi porto da un’altra parte, con i ricordi. Negli anni, infatti, ne è entrata un’altra. È la più brutta, brulla, inospitale, dell’ isola: mi verrebbe da dire che dalle crete di quelle sabbie, sì, stilla il fiele. Il mare è fermo, e caldo, lo si potrebbe definire “in cancrena”, invaso da ciuffi enormi di posidonia, di alghe, fino quasi alla riva. Fare il bagno in quell’acqua: orrore. Infatti, l’avrò fatto sì e no – e sempre per necessità, ma sudato e felice, capirete presto – due, tre volte. Dimenticavo. Tira quasi sempre vento. Forte. In autunno, la terra desolata, che altro che T.S. Eliot…A ridosso di quella spiaggia, Cussorgia, con i miei amici, avevamo sterrato e ricavato un campo di calcio a 5. Niente di che, anche stavolta. Come per la spiaggia, immaginate un terreno arido, ghiaia. Uno di noi, che se ne intendeva, dice lui, suggerì di seminare non so quale erba. Non solo non crebbe mai un ciuffo, l’aveva presto travolta un’erbaccia fortissima, una gramigna tenace e, a dire il vero, nemmeno tutti i gambi spinosi del cardo eravamo riusciti a estirpare. Tratti sabbiosi, il terreno non era per niente parificato dal nostro lavoro: il pallone un po’ rimbalzava, un po’ frenava, inutili i tentativi di essere precisi nei passaggi. Ovviamente non c’erano le linee del campo e, nei primi tempi, nemmeno le porte, si andava a occhio. Però: era il nostro campo. Ogni sabato, per non so quanti anni, sole, pioggia, vento – anzi, meglio con pioggia, vento e fango, tutta epica casalinga –, eravamo lì a giocare, sempre gli stessi, nessuna defezione, per nessun motivo. Il giorno della prima partita nel campo nuovo sbucò fuori un arcobaleno così terso che sembrava una presa in giro. O, forse, un segno. In paese, manco a dirlo, eravamo gli unici a difendere quel terreno e apprezzare la spiaggia.