Ascolta la versione audio dell’articolo4′ di letturaUn punto di una mappa non è soltanto un punto. Perché può diventare un tesoro attivando storie nascoste da far emergere e portare a nuova vita. Ma se quel punto fosse una casa? Ogni casa ha una storia. Anzi, tante storie. È il copy della nuova campagna di Sony Picture partita in queste ore sul mercato americano e legata all’attesa pellicola Here in programmazione oltreoceano dal 1° novembre. Accanto al testo evocativo c’è un form da compilare nel quale ciascun utente può apporre un indirizzo che permette di iniziare a navigare per costruire e condividere storie. Quel punto, ossia quel qui del film in realtà permette di andare molto lontano nel tempo, alla scoperta delle differenti generazioni che hanno abitato una casa. È il senso del progetto sperimentale di Robert Zemeckis con Tom Hanks e Robin Wright basato sulla graphic novel di Richard McGuire. Un unico punto di vista e tante storie tra loro connesse. Il film racconta le differenti famiglie che si sono succedute nell’immobile in un arco temporale esteso che abbraccia più secoli. Muoversi nel tempo, restando fermi in uno specifico punto. C’è poi la macchina da presa fissa che non lascia l’inquadratura del perimetro entro il quale avvengono i fatti narrati. Dal grande schermo agli schermi miniaturizzati degli smartphone. Sony Pictures ha creato un’esperienza interattiva che consente a ogni utente di esplorare il proprio qui con un’esperienza di mappa immersiva personalizzata utilizzando Google Maps Platform. La campagna permette di interagire con luoghi del mondo reale legati alle proprie vite e di scoprire il proprio spazio nel mondo. Un modo per collegare le narrazioni personali alle esperienze collettive.Living storiesÈ il tempo delle “living stories” su cui si basa il racconto d’impresa autentico, coerente, coinvolgente. Nel tempo segnato dagli effetti speciali, le aziende d’eccellenza riscoprono il valore della narrazione strategica perché le storie – quando raccontate e diffuse al meglio – orientano il business. È quanto emerge dalla ricerca dell’agenzia Bea e realizzata dall’Università Iulm con l’analisi di Stefania Romenti e Luciano Massa. L’indagine, presentata in anteprima sul Sole 24 Ore, dà voce ai professionisti della comunicazione. Ne esce fuori un quadro incoraggiante sulla strategicità dello storytelling. «Il punto di partenza è l’autenticità che richiede una solida cultura aziendale, valori condivisi da tutti, un’identità forte e chiara. Una narrazione aziendale solida è fatta di storie condivise e guarda al futuro. Un po’ come la grand strategy serve a segnare un percorso di crescita, la grand narrative è ciò che serve all’azienda per raccontare in modo efficace il percorso», dice Marco Bardazzi, Presidente di Bea. Dall’Italia al resto del mondo: si moltiplicano così le content factory che legano le organizzazioni ad agenzie e professionisti in una filiera integrata e interconnessa. «Le fabbriche di contenuti possono assumere diverse forme, ma l’idea alla base di ogni organizzazione è semplice: ottimizzare l’intera filiera di produzione, dall’analisi di mercato alla misurazione delle prestazioni passando per la creazione e la produzione, senza dimenticare il controllo della distribuzione. Utilizzare la quantità di contenuti prodotti da una content factory offre agli inserzionisti una comprensione più precisa dei pubblici, dei temi e dei formati che registrano le prestazioni migliori, soprattutto in un contesto in cui l’uso di dati di terze parti è diventato più complesso», ha scritto Elie Ohayon su Forbes. È un cambio di paradigma per far fronte ad una complessità legata al sistema mediale. D’altronde per la World Federation of Advertisers già oggi oltre il 50% dei brand nei differenti settori ha sviluppato capacità di produzione di contenuti interne, legandosi anche a competenze esterne. Anche perché le storie, se ben costruite, rappresentano una strategia che crea valore. Lo ha certificato anche McKinsey, evidenziando come la ricetta vincente è connettere la creazione di contenuti all’analisi dei dati. Chi lo fa registra un tasso di crescita che impatta sul business due volte più velocemente degli altri. «Le storie sono la materia prima più potente di cui dispone un’azienda e serve un approccio integrato per fare della comunicazione il motore di ogni avventura imprenditoriale. Si tratta di un’area che deve essere fortemente orientata all’ascolto, al dialogo continuo con le altre funzioni del business, all’accoglimento del feedback dei dipendenti così come dei pubblici esterni. Questo significa integrare con una funzione organizzativa centralizzata, ma diffusa nell’organizzazione. Oggi vengono creati team redazionali diffusi per fornire alla funzione centrale elementi che alimentano la narrazione», dice Bardazzi.Loading…L’effetto Netflix sulle storieDai contenuti alle piattaforme. «L’omnicanalità è uno stimolo a rompere i silos e a costruire percorsi narrativi. Sta emergendo anche quella che la ricerca definisce l’effetto Netflix della narrazione corporate: come nelle serie tv si parte dal contenuto e si costruisce un racconto a puntate, ancorato nella strategia di comunicazione», sostiene Salvatore Ippolito, amministratore delegato di Bea. Altro che tutto e subito. Lo storytelling si prende il proprio spazio e si dipana in un arco temporale che favorisce la serialità. Ma per farlo serve visione nel tempo e integrazione di canali, formati, processi. «In questo modo il racconto diventa leva di business. Nella ricerca le espressioni più adottate sono state multi-target, multi-piattaforme, multi-vocali, multi-linguaggio. Questo comporta capacità di personalizzazione dei contenuti in base ai target. Gli owned media sono decisivi quando inseriti in strategie dove si lavora anche alla multivocalità», conclude Ippolito.