Ascolta la versione audio dell’articolo3′ di letturaLeonardo Sciascia rivelò il punto esatto in cui risiedeva la sicilianità nella raccolta di saggi La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia (1982): secondo lo scrittore di Racalmuto, era innanzitutto la tensione conoscitiva di uno stato d’esilio esistenziale. «E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più che otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei”».E dal tema dell’esilio, mescidato a una struggente relazione con il padre, parte Animale, il romanzo d’esordio di Giuseppe Nibali, giovane autore catanese che ha pubblicato in precedenza alcuni testi poetici di rilievo (ultimo Scurau, Arcipelago Itaca, 2021). Il protagonista della storia, omonimo del suo autore ma non pienamente coincidente con lui (è un’autobiografia trasfigurata in senso modernista, non un’autofiction), lascia Bologna – città universitaria – e ritorna in patria, una mattina di novembre, a Giardini Naxos perché il padre Sergio è ricoverato in una clinica a seguito di ictus che ha causato nel paziente l’emiplegia. Dato che non si parlano né si vedono da anni, la malattia di Sergio è il momento della resa dei conti e di un dialogo serrato tra due generazioni a confronto. Nibali conduce la narrazione con una prosa secca e fortemente lirica, che ricorda il McCarthy dei libri ambientati in Tennessee. Questo è il suggestivo incipit del romanzo: «Un ululato, poi un secondo e un terzo, poi ecco il coro. Viene fuori dal buio, non dà tregua. Solo non è seguito dai corpi, non entrano in scena i lupi. La prima voce è quella del capobranco, che ulula tre volte. È la sua la nota più intensa. Si potrebbe pensare che sia stato lasciato solo, che si lamenti, ma subito si capisce che quella solitudine significa rispetto. I lupi armonizzano l’ululato su quella nota, e sembra che siano molti, che siano più di loro stessi. Se il capobranco smette, è la chiusa del coro».Loading…La sicilianità di Nibali La sicilianità di Nibali è forse nel sostantivo/aggettivo che dà il nome al testo: la forza animale, bruta, istintiva, una furia verginale quanto l’isola che la raccoglie, capace di legare Sergio e Giuseppe in un cieco contatto con la terra e con la morte, con la loro più vera umanità.Nella sua intensa monografia sull’intero corpus lirico di Bartolo Cattafi, L’oltraggio d’una minima stella rugginosa, Diego Conticello intende altresì rilevare la «vena barocca» del poeta di Barcellona Pozzo di Gotto, mettendo in evidenza l’orfismo visionario, le callidae iuncturae, gli scarti semantici che coincidono con fulminei salti quantistici di pensiero. «Cattafi – scrive Conticello – è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne viene fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante».Anche in tal caso si può notare il senso più puro, assoluto della sicilianità additata da Sciascia: selvaggia nostalgia di un’umana compiutezza. Esilio e ritorno in un unico movimento.Giuseppe Nibali, Animale, Italo Svevo Edizioni, pagg. 152, € 16,00