I punti chiaveAscolta la versione audio dell’articolo3′ di lettura«Quando i talebani sono saliti al potere (ancora una volta), sono rimasto scioccato. Cosa sarebbe successo al popolo afghano?»: è partito da questa domanda Ibrahim Nash’at, regista egiziano classe 1990, per realizzare il suo documentario “Hollywoodgate”, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.Il titolo del film fa riferimento a un complesso che si presuppone essere una ex base della CIA a Kabul, che i talebani hanno immediatamente occupato il giorno dopo il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan.I talebani si sono così trovati davanti agli occhi tutto quello che l’esercito più tecnologicamente avanzato del mondo ha lasciato dietro di sé: aerei, armi e un prezioso equipaggiamento militare. Stupefatto dalla tecnologia, Malawi Mansour, il nuovo comandante dell’Aeronautica, ordina ai suoi soldati di inventariare e riparare tutto ciò̀ che possono.Loading…MukhtarNello stesso luogo arriva anche l’ambizioso Mukhtar, intenzionato a intraprendere una carriera militare di alto rango.La prima domanda che ci si pone di fronte a questo prodotto è come sia riuscito Nash’at a girare questo film durante la (ri)nascita del regime talebano: la risposta è che quest’ultimo ha concesso a scopo propagandistico l’accesso ai documentaristi internazionali, a patto di riprendere solo ciò che volevano le autorità.Nonostante queste restrizioni, ciò che il regista è riuscito a filmare è talmente impressionante e sconvolgente da renderle questa pellicola un documento prezioso e inquietante allo stesso tempo.La formazione di un regime militareSi può definire questo lavoro una sorta di film di formazione, in cui si segue la trasformazione di una milizia fondamentalista in un regime militare. In circa un anno l’occhio del regista mostra questo terrificante percorso, riuscendo a farci riflettere con forza su quanto successo soltanto un paio d’anni fa in quella parte del mondo.Co-produzione tra Germania e Stati Uniti, “Hollywoodgate” è una sorta di reportage giornalistico in cui l’apparato formale conta fino a un certo punto. Se l’estetica non ha grande originalità, ciò che è realmente importante in un lavoro come questo sono i contenuti e il senso di terrificante stupore che fa nascere nel pubblico.Da segnalare che questo non sarà di certo l’ultimo documentario interessante in programma a Venezia: tra i titoli di questo tipo sulla carta più significativi della kermesse vedremo nei prossimi giorni “Menus plaisirs – les troisgros” di Frederick Wiseman e “Ryuchi Sakamoto – Opus” di Neo Sora, ma anche “Amor” di Virginia Eleuteri Serpieri (co-produzione tra Italia e Lituania) e “Dario Argento Panico” di Simone Scafidi.