Ascolta la versione audio dell’articolo3′ di letturaChe sia arrivata la volta buona per Philippe Garrel di entrare nel palmarès del Festival di Berlino? Il regista francese ha ottenuto premi in tantissime manifestazioni in tutto il mondo – tra cui il Festival di Cannes e soprattutto due Leoni d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia, per i bellissimi “J’entends plus la guitare” (1991) e “Les amants réguliers” (2005) – e potrebbe arricchire la sua bacheca con un premio che arriva dalla capitale tedesca.I film del settimo giorno della BerlinalePhotogallery3 fotoVisualizza In lizza per l’Orso d’oro già nel 2020 con “Le sel des larmes”, Garrel torna in concorso con “Le grand chariot”, un film che si connota subito come nato sotto una stella segnata da una grande passione.Al centro c’è una famiglia che si occupa di spettacoli di marionette: l’ultima generazione di questa ricca tradizione è composta da tre personaggi interpretati dai tre figli di Garrel, ovvero Louis, Esther e Léna.Se anche il capofamiglia appare come un alter ego dello stesso autore, si sente davvero quanto di personale ci sia in questa storia: oltre ai riferimenti familiari, sono presenti praticamente tutte le tematiche preferite dal regista francese. Dal tema dell’amore a quello dell’amicizia, passando per le scelte spesso autodistruttive di chi ha dentro di sé l’anima dell’artista, “Le grand chariot” sembra davvero una sorta di mosaico di tutto il cinema del regista nato a Parigi nel 1948.Loading…L’eleganza della messa in scena e i rimandi a TruffautBasta la prima sequenza per poter trovare dei riferimenti a François Truffaut e, in particolare, a una bellissima scena ad altezza di bambino del suo esordio-capolavoro “I 400 colpi” del 1959.Garrel, che ha iniziato a realizzare cortometraggi durante l’adolescenza, è sempre stato uno dei principali figli di quella Nouvelle Vague che in Francia rivoluzionò il cinema tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta.Se siamo abituati a vedere film di Garrel in bianco e nero, questa volta il regista opta per i colori, forse per trasmettere al meglio tutta la magia di un mestiere d’altri tempi, capace di stupire e di creare meraviglia.In questa malinconica rappresentazione di un mondo in cui certe tradizioni stanno morendo, ciò che colpisce è l’eleganza della messinscena e la delicatezza generale del tono di una pellicola che, seppur risulti un po’ in calo nella seconda parte, riesce a emozionare in maniera semplice e spontanea.Infinity PoolDal tocco delicato di Garrel, passiamo alla vanitosa sovrabbondanza di “Infinity Pool”, nuovo film di Brandon Cronenberg, figlio del celebre David.Ambientato all’interno di un resort esclusivo, il film racconta di diversi personaggi che si stanno godendo vacanze da sogno, fino a quando un incidente non porterà alcuni di loro a scoprire un mondo parallelo, fatto di violenza e orrori di ogni sorta.Presentato all’interno della sezione Berlinale Special, è un film di cui non si può svelare troppo della trama per non rischiare di raccontare qualche colpo di scena importante nello sviluppo narrativo.Peccato che, al di là di certe scelte di copione capaci di scuotere, ci sia ben poco di sorprendente in questo film oltremodo supponente e incapace di rendere le sue metafore degne di essere ricordate al termine della visione.Arrivato al suo terzo film e con due pellicole quantomeno interessanti alle spalle, Brandon Cronenberg era chiamato alla prova della sua maturità, ma ha finito per dare vita a un lungometraggio confuso, pasticciato e del tutto da dimenticare.